Black Mirror 7 Il Futuro è Un Abbonamento: La Stagione più Autocritica e Disturbante della Serie di Charlie Brooker
- Giada Maria Scarfiello
- 24 apr
- Tempo di lettura: 4 min
Sin dal suo debutto nel 2011, Black Mirror ha definito un nuovo modo di raccontare la tecnologia: non come meraviglia, ma come minaccia sussurrata, come riflesso oscuro delle nostre pulsioni più intime. Creato da Charlie Brooker, il format antologico ha messo in scena un catalogo di futuri plausibili, ma sempre profondamente radicati nei dilemmi del presente. Ogni episodio è un mondo a sé: dall’incubo della reputazione sociale in “Nosedive” alla digitalizzazione dell’identità in “White Christmas”, la serie ha anticipato (o denunciato) le derive di un mondo sempre più dominato da algoritmi, sorveglianza e narcisismo.
Con il tempo, però, la domanda è cambiata: e se la distopia non fosse più imminente, ma già in atto?
La distopia è qui: Black Mirror 7 e l’abisso dell’ordinario
Nel 2025, Black Mirror non immagina più il futuro: lo riconosce. La settima stagione è la più crudele, lucida e chirurgica della serie. Charlie Brooker sposta lo sguardo dal sensazionalismo sci-fi alla banalità del male tecnologico, mettendo in scena non futuri remoti ma un presente che ci sommerge. Al centro: piattaforme di streaming, intelligenze artificiali privatizzate, economia dell’abbonamento, e il crollo della distinzione tra consumatore e prodotto.
1. “Common People” – La malattia in abbonamento
Questo episodio è il manifesto della stagione. Amanda (Rashida Jones), malata terminale, sopravvive grazie a una copia digitale del suo cervello installata in un chip cerebrale, gestito dalla startup Rivermind. Ma il servizio è a pagamento, e i piani economici prevedono restrizioni inquietanti: blackout neurologici, inserzioni pubblicitarie involontarie, zone geografiche di non-copertura. La mente stessa diventa un servizio SaaS (Software as a Service), soggetto a downgrade. È l’“enshittification” dell’esistenza: una lenta degradazione strutturale del sistema per massimizzare il profitto, ispirata direttamente ai modelli reali di aziende tech.
2. “USS Callister: Into Infinity” – Il capitale oltre la morte
Il ritorno dell’universo USS Callister è un sequel narrativo e concettuale. I cloni digitali ribelli sopravvivono in un videogioco online dove tutto è monetizzato. Devono rubare crediti per muoversi o semplicemente continuare a esistere. Il CEO della compagnia, incarnazione del capitalismo più ottuso, entra nel gioco per sterminare chi non paga. Il messaggio è brutale: il consumatore non è un cliente, è un problema se non genera profitto. È una satira feroce contro l’evoluzione delle microtransazioni e l’inumanità algoritmica della Silicon Valley.
3. “Bête Noire” – Le verità divergenti
Due versioni parallele dello stesso evento: un caso di bullismo scolastico che sfocia in tragedia. Il montaggio bifronte mostra come la percezione algoritmica della realtà (social media, deepfake, bias di conferma) possa costruire due verità incompatibili. È un esercizio narrativo sulla post-verità, dove l’empatia diventa impossibile e la colpa è sempre dell’altro. L’episodio dialoga con Bandersnatch e con i deep learning generativi, mostrando come la realtà possa essere “renderizzata” su misura, come una serie TV interattiva.
4. “Hotel Reverie” – L’illusione dell’intimità digitale
Rifacendosi a San Junipero, questo episodio esplora una casa di cura dove i pazienti possono vivere in una simulazione vintage personalizzata. Ma l’amore tra due ospiti sfugge al controllo, diventando troppo “intenso” per i parametri del sistema. Il software interviene. Qui la nostalgia diventa meccanismo di controllo, e la felicità è regolata da un algoritmo che decide quanto è “troppa”. È una riflessione sull’ottimizzazione emotiva: in un mondo dove tutto è tarato per essere “user friendly”, anche l’amore ha una soglia massima di tollerabilità.
5. “Eulogy” – Il lutto sotto contratto
In questo episodio, i ricordi di una persona defunta vengono convertiti in un ologramma interattivo per aiutare i cari a elaborare il lutto. Ma i ricordi sono editati, depurati dai momenti oscuri. Il risultato è una “persona 2.0” artificiale, piacevole ma irriconoscibile. L’episodio riflette sull’economia della memoria, e su come il dolore venga reso commerciabile e sterilizzato. È il culto della positività tossica, esportato anche nella morte.
6. “Plaything” – Videogiochi, trauma e infantilizzazione
L’episodio più debole secondo la critica, ma non privo di spunti. Un giovane sviluppatore lavora a un gioco horror ispirato al proprio trauma infantile. Ma il suo stesso subconscio, materializzato dal motore AI del gioco, sfugge al controllo. È una riflessione sul trauma gamificato e sull’industria videoludica che sfrutta la vulnerabilità personale per vendere emozioni forti.
Black Mirror come specchio delle serie stesse: la riflessione metatelevisiva
Uno degli aspetti più affascinanti della settima stagione è il suo continuo gioco metatelevisivo: Black Mirror non solo analizza la nostra dipendenza da piattaforme e contenuti digitali, ma punta l’obiettivo sul medium stesso, la serialità. In particolare, episodi come “USS Callister: Into Infinity” e “Common People” sembrano interrogare direttamente il rapporto perverso tra spettatore e contenuto, tra algoritmo e desiderio. L’universo narrativo diventa consapevole di essere prodotto da logiche di intrattenimento e profitto, e si rivolta contro di esse. Questa autocoscienza lo avvicina al metacinema, ma con una torsione distopica: è come se Black Mirror si guardasse allo specchio e non vedesse più una serie, ma un'industria cannibale che divora storie, identità e perfino esperienze umane autentiche. Brooker non critica solo la tecnologia, ma anche il sistema che lo ospita. Un atto radicale di autocritica culturale, rarissimo nella televisione mainstream.
Questa stagione non si accontenta più di criticare il mondo esterno: Black Mirror punta il dito contro sé stessa e il mezzo che la ospita. “Joan Is Awful” (stagione 6) aveva già introdotto Streamberry, la parodia di Netflix che crea show tratti dalle vite reali degli utenti. La stagione 7 porta questo concetto oltre: è una riflessione sull’impossibilità di un’arte davvero autonoma nell’ecosistema dell’intrattenimento digitale. Ogni episodio è anche un meta-commento sull’atto stesso di guardare Black Mirror.
Conclusione: la distopia è diventata piattaforma
La settima stagione di Black Mirror segna una svolta profonda: non è più un semplice avvertimento sul futuro, ma un documento clinico del nostro presente. Con storie che affondano nel quotidiano digitale, Brooker mostra come la distopia non sia qualcosa che potrebbe accadere: è qualcosa a cui abbiamo già cliccato “Accetta”.
Disponibile su Netflix.
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