Dove la Realtà Sfuma, la Fiaba Inizia: Alice Rohrwacher
- Giada Maria Scarfiello
- 11 ago
- Tempo di lettura: 5 min
Un’artigiana di mondi
Alice Rohrwacher non è semplicemente una regista italiana di successo internazionale: è un’artigiana di mondi, una custode di memorie che non si accontenta di ricordare, ma ricrea, riforge, reinventa. Nata nel 1981 a Fiesole, ma cresciuta in Umbria, in una casa dove la campagna non era un fondale ma un elemento vivo, ha assorbito un senso della realtà che si nutre di vento, terra e voci umane. È da lì che nasce la sua idea di cinema: non un apparato che filma, ma un corpo sensibile che respira con ciò che riprende.
Il tratto distintivo del cinema di Rohrwacher è la sua porosità: i confini tra reale e immaginario, presente e passato, umano e naturale, si dissolvono. La macchina da presa non osserva dall’esterno, ma sembra respirare con i personaggi, concedendosi libertà formali che includono cambi di formato, inserti in pellicola Super 16, rotture della quarta parete e improvvisi momenti di sospensione temporale.

Il tempo narrativo è ciclico, scandito dalle stagioni, e la drammaturgia è costruita più per accumulo di sensazioni che per progressione lineare. È un cinema che non spiega, ma invita a sentire. C’è chi filma la realtà per documentarla, e chi, come Alice Rohrwacher, la filma per rivelarne le parti invisibili.
L’innocenza come resistenza
Quando il suo primo lungometraggio, Corpo Celeste, apparve a Cannes nel 2011, si aprì una porta su un’Italia invisibile: quartieri periferici, volti adolescenti in bilico tra ingenuità e disincanto, una religiosità filtrata dallo sguardo incerto di chi è troppo giovane per credere davvero e troppo lucido per accettare dogmi. Rohrwacher mostrava già allora una qualità rara: aderire alle persone che filma, senza mai ridurle a simboli o funzioni narrative.
In Lazzaro Felice (2018), questa adesione diventa un abbraccio mistico. Lazzaro attraversa il tempo come se il tempo non esistesse. Il passaggio dal latifondo arcaico a un presente urbano e disilluso non è solo un salto temporale, ma una rivelazione: la povertà cambia volto, non sostanza. Eppure, tra denuncia sociale e favola, il film custodisce una leggerezza quasi miracolosa.

Il tempo come scavo
Se Lazzaro Felice è la parabola dell’innocenza indistruttibile (illusione), La Chimera (2023) è il racconto della perdita e dell’ossessione. Presentato in concorso a Cannes, La Chimera chiude idealmente una trilogia iniziata con Le Meraviglie e proseguita con Lazzaro Felice. Qui il protagonista, interpretato da Josh O’Connor, è un giovane archeologo inglese coinvolto in traffici clandestini di reperti etruschi.
La “chimera” del titolo è al tempo stesso l’oggetto della sua ricerca e la metafora di un passato irrecuperabile. Rohrwacher orchestra il film come un viaggio tra il mondo dei vivi e quello dei morti, alternando registri comici, romantici e funerei.
Visivamente, il film è una lezione di stile: il passaggio dal 35mm al Super 16 e al formato televisivo anni ’80, la scelta di “sporcare” l’immagine con graffi e bruciature, e l’uso di carrelli laterali che sembrano far scorrere la vita come un nastro di ricordi, rendono il film una sorta di archeologia del cinema stesso. L’archeologo interpretato da Josh O’Connor scava tombe etrusche per trovare reperti, ma ogni oggetto dissotterrato sembra sottrargli qualcosa di vitale. Rohrwacher intreccia amore e morte come se fossero elementi di una stessa trama, giocando con diversi formati cinematografici — 35mm, Super 16, immagini televisive — che diventano essi stessi strati di un terreno archeologico.

Fotografia: il respiro della luce
Nei film di Rohrwacher, la fotografia (spesso firmata da Hélène Louvart) è più di una scelta estetica: è il sistema circolatorio del racconto. La luce naturale domina, filtrata da tende sottili o dalla polvere in sospensione. I colori sono terrosi, smorzati, ma mai spenti: ocra, marroni caldi, verdi che non sono da cartolina, bensì vissuti, imperfetti. Non c’è patinatura, ma una qualità materica che fa sentire la consistenza delle cose.
Ogni inquadratura è costruita come un luogo in cui si possa respirare. La macchina da presa non sovrasta, accompagna: i movimenti sono lenti, curiosi, spesso alla ricerca di un dettaglio che si rivelerà più eloquente di un dialogo. E quando la luce cambia — un tramonto che entra in una stanza, un temporale che spegne i colori — lo spettatore lo percepisce fisicamente, come se fosse lì.
Un’Italia che non c’è più, eppure ci appartiene
I paesaggi di Rohrwacher sembrano sospesi in un tempo indefinito: campagne non addomesticate, borghi che hanno perso centralità, case di pietra che parlano di vite umili. Non è nostalgia: è il ritratto dell’anima, un’Italia marginale che sopravvive nelle pieghe del presente e nella memoria di chi l’ha vissuta.
“Tutti i miei film sono legati al tema del passato, a cosa fare del passato: sono fatti di tracce, resistenze, reminiscenze e oblii. Vivere in un paese come l’Italia rende questo ragionamento essenziale. Spesso ci si rivolge al passato cancellandolo o cristallizzandolo: è difficile trovare qualcuno che abbia con esso un rapporto vitale. La ricerca è vivere con il passato senza esserne schiacciati e trovare in esso una radice comune, che ci permetta di immaginare il futuro. Un futuro non solo come luogo da costruire, ma anche come luogo da preservare.”
È proprio questo spaesamento temporale a renderla universale. Lo spettatore, anche se non ha mai messo piede in quelle campagne o non ha mai vissuto in un borgo umbro, riconosce qualcosa di sé: un odore, un gesto, una luce del pomeriggio che sembra di aver già visto da bambino.
Il soprannaturale come quotidiano
Il magico, nei suoi film, non ha bisogno di effetti speciali: entra in scena con la naturalezza di un evento meteorologico. Un lupo che appare, una visione fugace, una voce che canta nel buio: sono presenze che non interrompono il flusso del reale, ma lo arricchiscono. È un realismo permeabile, che lascia entrare l’invisibile senza stupore e senza paura.
Alice Rohrwacher e il futuro del cinema
Oggi, alla guida della giuria della Caméra d’Or a Cannes 2025, Rohrwacher sembra chiudere un cerchio: da esordiente emozionata a custode delle prime volte altrui. È un ruolo che le appartiene, perché il suo cinema difende l’imperfezione, la ricerca, la possibilità di sbagliare per trovare una verità più profonda.
In un’epoca di narrazioni iper-serializzate e algoritmiche, il cinema di Alice Rohrwacher rappresenta un atto di resistenza poetica. Non offre risposte facili né messaggi chiusi, ma invita a restare in ascolto, a perdersi e a ritrovare senso in luoghi dimenticati.
Dove vedere i film citati:
Corpo Celeste (2011) → disponibile su MUBI e in noleggio su Apple TV e Google Play.
Le Meraviglie (2014) → su MUBI, Chili e noleggio su Amazon Prime Video.
Lazzaro Felice (2018) → Netflix (Italia), noleggio su Apple TV e Google Play.
La Chimera (2023) → noleggio/acquisto su Amazon Prime Video, Apple TV, Google Play; alcune sale d’essai lo proiettano ancora in rassegne.
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