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Petali e Sangue nel capolavoro di Ari Aster: Midsommar

Ari Aster, con Midsommar (2019), non realizza semplicemente un film horror. Realizza un affresco. Una tavola rituale dove pittura, psicologia, antropologia e cinema convergono in un incubo soleggiato. Inverte l’oscurità tradizionale del genere e la sostituisce con una luce bianca, onnipresente, in cui nulla può nascondersi. E in questa luce, esattamente come in un dipinto sacro o in un polittico medievale, ogni elemento ha una funzione simbolica, ogni gesto è un codice. È un horror che parla sommessamente, ma con una chiarezza inquietante, persino lirica.


La trama si muove come un'elegia: Dani (Florence Pugh), giovane donna americana segnata da un lutto devastante, accompagna il suo distaccato fidanzato Christian e alcuni amici in un villaggio svedese isolato, dove ogni 90 anni si celebra un rituale di passaggio (il Midsommar è una reale usanza svedese). Quel che sembra, all’inizio, un’esperienza etnografica di curiosità e folklore si rivela progressivamente una spirale di alienazione, trasformazione e sacrificio. Ma non è solo un film su una setta. È un film sulla depressione, sulla perdita, sull’elaborazione del lutto, e sulla necessità quasi biologica di appartenere.


Midsommar: il capolavoro di Ari Aster

La pittura del dolore

Dal punto di vista visivo, Midsommar è un’opera d’arte totale. La direzione della fotografia, firmata da Pawel Pogorzelski, è sontuosa e straniante: campi lunghi geometrici, simmetrie inquietanti, prospettive ribaltate. Il villaggio di Hårga sembra uscito da un dipinto preraffaellita, da un affresco di Böcklin o un sogno contadino di Bruegel il Vecchio: corpi bianchi, corone di fiori, danze circolari. Ma è proprio la luce – una luce chiara, costante, quasi divina – a rendere il film perturbante. Non ci sono ombre in cui rifugiarsi. La tragedia, l’orrore, la morte, tutto accade alla luce del sole.


I murales che decorano gli spazi comuni del villaggio, ispirati all’arte popolare scandinava, sono narrazioni visuali che anticipano la storia: riti d’amore, sacrifici, orsi. È un cinema che parla per immagini prima ancora che per parole. Ogni inquadratura è composta come un quadro allegorico, e ogni elemento – floreale, simbolico, cromatico – ha un peso specifico nella lettura dell’opera.


Simbolismi floreali e rituali di rinascita

I fiori, onnipresenti, non sono solo decorazione. Sono codice, sono linguaggio. Ogni specie porta un significato: il fiordaliso è speranza e tradimento, la margherita purezza apparente, l’iperico allude alla guarigione della mente. Quando Dani viene incoronata Regina di Maggio, non è solo un ruolo simbolico: è il momento in cui il dolore si trasforma in potere, in appartenenza. Ma è anche il culmine del suo smarrimento identitario: ha trovato una famiglia, ma ha perso sé stessa?


Midsommar: arte e sacrifici

Anche il linguaggio runico, inciso su tavole, porte e tuniche, rafforza questa mitologia scritta. Le rune non sono mai casuali: sono messaggi antichi, rivelazioni mascherate da decorazioni.


Il film, pur ambientato nel presente, opera in una dimensione senza tempo. I rituali hanno il peso delle leggende norrene, delle tradizioni contadine dimenticate. Ma il loro significato si rifrange nella contemporaneità: dietro la coreografia rituale, si cela la domanda fondamentale sul bisogno umano di appartenere a qualcosa, anche a costo del sacrificio altrui.


Empatia collettiva, orrore condiviso

Uno degli aspetti più originali di Midsommar è la costruzione dell’empatia. Quando Dani piange, le donne del villaggio piangono con lei, all’unisono, in un gesto di rispecchiamento che non è teatrale, ma profondamente organico. Il villaggio reagisce emotivamente come un solo corpo. Non offre spiegazioni, offre immedesimazione. In questo senso, il film compie una critica sorda ma violenta alla cultura individualista occidentale: Christian, il fidanzato, è incapace di comprendere Dani, di condividere il suo dolore. Hårga, invece, la accoglie con rituale, con gesti, con il corpo. E forse, per quanto spaventosa, quella comunità è più viva di qualsiasi altro ambiente urbano sterile e anestetizzato.


Un'opera musicale scolpita nei corpi

Un aspetto poco discusso ma straordinario del film è la colonna sonora di Bobby Krlic (The Haxan Cloak). Oltre a strumenti tradizionali, Krlic ha costruito la musica attraverso le voci reali dei membri del cast, campionate, manipolate e trasformate in texture sonore. Ogni respiro, ogni lamento collettivo, ogni urlo rituale diventa suono musicale. La colonna sonora non è semplicemente accompagnamento: è parte del tessuto narrativo, è una pelle sonora che vibra insieme all’immagine. Le musiche non guidano l’emozione, la incarnano.


In particolare, i momenti culminanti – il suicidio rituale, l’accoppiamento sacro, il sacrificio finale – sono sottolineati da composizioni vocali inumane, dolenti, viscerali. È un suono che viene dal corpo, e ritorna al corpo.


La fotografia di Midsommar è arte allo stato puro

Un riflesso inquietante della nostra società

Un’altra qualità disarmante di Midsommar è quanto, almeno all’inizio, non ci sembri così strano. Le regole della comunità, per quanto bizzarre, hanno una coerenza. I riti, seppur estremi, sono presentati con una calma e una compostezza che li rende quasi comprensibili. Addirittura sensati. L’idea che gli anziani si sacrifichino per non gravare sulla collettività, che le emozioni vengano espresse coralmente, che ogni dolore abbia uno spazio ritualizzato: sono istanze che risuonano in una società dove la solitudine emotiva e il cinismo relazionale sono diventati norma.


Aster gioca magistralmente con questo paradosso. Ci mostra un mondo crudele, ma empatico; rigido, ma armonico. E ci chiede: davvero è più folle di quello da cui veniamo?


Midsommar: un'opera d'arte

Midsommar è un film che sfugge a ogni definizione univoca. È horror, ma anche rito cinematografico. È tragedia luminosa, ma anche rinascita rituale. È un film che respira, che canta, che piange insieme al suo spettatore. La sua potenza visiva – tra le più alte del cinema contemporaneo – si unisce a una tessitura simbolica che continua a riverberare ben oltre i titoli di coda.


Ari Aster firma con Midsommar un'opera vertiginosa, profondamente sensoriale, che interroga la psiche, il corpo e la società. Un film che ci costringe a guardare – in piena luce – le nostre paure più antiche e i nostri desideri più inconfessabili. E che ci lascia con una domanda inquietante: se la felicità ha bisogno di sacrificio, quanto siamo disposti a chiudere gli occhi?

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