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La Casa degli Sguardi, quando L'autodistruzione Diventa Empatia Collettiva.

Tratto dal romanzo autobiografico di Daniele Mencarelli, La casa degli sguardi si presenta come un film che, pur confrontandosi con la difficile eredità della parola scritta, sceglie un’altra strada: quella dell’emozione pura, del linguaggio universale dei volti, dei silenzi, degli occhi.


Chi cerca nella trasposizione cinematografica una fedeltà chirurgica al testo troverà delle difficoltà: alcuni snodi narrativi sembrano semplificati, quasi lasciati indietro. Ma Zingaretti non cerca di "illustrare" il libro, bensì di evocarlo, di tradurne il cuore e l’abisso emotivo. E sotto questa luce, La casa degli sguardi funziona alla grande.


Nel film si compie un raro miracolo cinematografico: trasformare un dolore personale, intimo e devastante in un’esperienza collettiva e catartica. Non è semplicemente la storia di un alcolizzato in cerca di redenzione, ma il racconto struggente e vibrante di un'anima ferita, persa nei meandri della sofferenza più acuta: quella del lutto non elaborato.


Il protagonista, Marco, interpretato magistralmente da Gianmarco Franchini, è un giovane poeta di 23 anni, fragile ma intensamente vivo. Franchini costruisce il personaggio senza mai cadere nel cliché: Marco non è mai patetico, mai caricaturale, ma profondamente umano. La sua interpretazione è fatta di minimi scarti, di esitazioni, di piccoli gesti che lasciano trasparire l’abisso che si porta dentro. Non c’è mai sovrapposizione tra l’attore e il ruolo: Franchini lo abita, lo respira, lo incarna.


Una delle sequenze più potenti del film è quella in cui Marco, nuovo dipendente in un ospedale, si trova a pulire un bagno imbrattato. La scena potrebbe sembrare grottesca, ma in realtà è un’apoteosi visiva del dolore silenzioso. Mentre affronta la sporcizia materiale, Marco appare quasi anestetizzato. Perché per lui non è quella la vera sporcizia: la sua vera contaminazione è interna, invisibile, profonda. Il lutto per la morte della madre lo perseguita come un odore che non se ne va, come un’atmosfera stagnante che si annida ovunque, anche nei momenti più banali. La regia di Zingaretti riesce qui a rendere sensoriale il trauma: lo spettatore lo sente sulla pelle, nei suoni ovattati, nei colori smorti, nella nausea che sale non per ciò che si vede, ma per ciò che si ricorda.


Il film è pervaso da un'estetica dell'angoscia: luce fredda, spazi angusti, silenzi spessi come muri. E tuttavia, dentro questo inferno esistenziale, c’è un faro: la poesia. Marco è un poeta, anche se la sua poesia lo condanna quanto lo salva. L’arte, in questo film, non è evasione: è confronto diretto, corpo a corpo con il dolore. Ogni parola che scrive è una scheggia che esce dal cuore e incide la carta. Scrivere non è per Marco un gesto nobile, ma una necessità fisiologica: se non scrive, implode. Eppure è proprio attraverso la scrittura che inizia la sua rinascita. Non perché guarisca, ma perché riesce a dare forma all’informe.


La casa degli sguardi è un luogo reale – l’ospedale pediatrico dove Marco lavora – ma anche simbolico: è lo spazio in cui gli occhi si incontrano, in cui lo sguardo dell’altro diventa specchio e confronto. Marco, che si crede irrimediabilmente solo, scopre che anche il dolore può diventare comunità. Gli sguardi dei bambini malati, dei genitori in attesa, degli operatori che ogni giorno affrontano l’orrore, sono gli unici capaci di riflettere davvero il suo stato d’animo. In questo, il film si fa anche riflessione sul potere della relazione, sull’empatia come primo passo verso la salvezza.


Gianmarco Franchini è il cuore pulsante di questo racconto. La sua interpretazione, così controllata eppure così dilaniante, fa di Marco una figura destinata a restare impressa nella memoria dello spettatore. Nei momenti più bui, come quando vaga per la città, Franchini non recita: vive. E in quel vivere disperato, ci regala una delle performance più autentiche e potenti del cinema italiano recente.


C’è una sinergia profondissima tra la regia e il vissuto emotivo del protagonista, che rende ogni sequenza un’eco visiva del suo stato interiore. Un esempio magistrale è la scena in cui Marco, ubriaco e affranto, ricorda un momento con sua madre sull’altalena. La regia non cede mai al sentimentalismo facile: sceglie invece di inquadrarlo frontalmente, in uno spazio quasi vuoto, mentre fissa qualcosa fuori campo. Lo spettatore sente prima la voce della madre, ma non la vede. Lei è presente solo acusticamente, come un ricordo che si insinua nella mente ma non si può più afferrare con gli occhi. È lontana per Marco, ed è lontana per noi. Questa scelta registica di negare la visione diretta del ricordo amplifica il vuoto che Marco sente: il dolore non si mostra esplicitamente, ma si insinua come un’assenza che grida. In questo modo, la regia non illustra il dolore: lo fa vivere. E lo fa risuonare dentro lo spettatore con un’intensità rara.


"La casa degli sguardi" è un film che fa male, ma è un male necessario. Perché ci ricorda che il dolore non va nascosto sotto strati di cinismo o indifferenza. Va ascoltato, va detto, va condiviso. Solo così, forse, può essere attraversato. In un tempo che ha paura della fragilità, il film di Zingaretti osa mostrarla senza filtri, e in questo trova la sua grandezza. Non è un film che offre risposte, ma uno di quelli che ci fa sentire meno soli nel porci le domande giuste.

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