La Valle dei Sorrisi: Quando l’Empatia Diventa una Condanna
- Giada Maria Scarfiello
- 24 ore fa
- Tempo di lettura: 4 min
Abbiamo già dedicato un articolo a Paolo Strippoli - che vi consigliamo di recuperare - regista che si conferma uno dei nomi più interessanti del cinema italiano contemporaneo. Tuttavia, non avevamo ancora avuto occasione di vedere La valle dei sorrisi, presentato in anteprima alla Biennale di Venezia 2025. E subito emerge chiaro: non è solo un film horror, ma un’esperienza emotiva e intellettuale che trascende il genere, arrivando dritta al cuore dello spettatore.
Temi universali oltre l’horror
Strippoli racconta Remis, un villaggio dove tutti sembrano felici grazie a un rituale singolare: Matteo, un ragazzo introverso, assorbe il dolore degli altri abitanti. Questa premessa diventa un pretesto per esplorare temi universali e trasversali: quanto l’empatia forzata possa diventare un peso insostenibile, quanto farsi carico dei dolori altrui possa prosciugare le energie fisiche ed emotive di un individuo. La riflessione va oltre l’horror: il film ci parla della fragilità umana, della necessità di confrontarsi con il dolore e di come l’altruismo estremo, se non bilanciato, possa trasformarsi in autodistruzione.

La musica italiana come ponte emotivo
Ancora una volta, Strippoli intreccia la musica italiana con la narrazione. La colonna sonora gioca un ruolo fondamentale nel film. In particolare, la canzone “Almeno tu nell’universo” di Mia Martini assume una doppia valenza simbolica: da un lato rappresenta il punto di vista di Matteo, il ragazzo che assorbe il dolore degli altri, come se dicesse: “Almeno tu non sfruttarmi per stare meglio, almeno tu non caricarmi di ulteriore dolore”. Dall’altro lato, dal punto di vista di Sergio, il professore, la canzone esprime la fragilità e il bisogno di conforto: “Almeno tu nell’universo aiutami a sopportare questo dolore”. In questo modo, la musica diventa uno strumento emotivo che amplifica le tensioni interiori dei personaggi e rende universale il conflitto tra empatia e sopportazione.
Remis: il villaggio del contenimento
Il villaggio di Remis non è scelto a caso. Il termine richiama alla mente parole come remise, “rimessa”, un luogo dove si custodiscono oggetti, ricordi e fatiche. In questo senso, Remis diventa metafora di un contenitore emotivo: un luogo dove gli abitanti depositano il dolore e le sofferenze altrui, cercando di nascondere ciò che li consuma dall’interno. Il nome sottolinea così l’idea centrale del film: il dolore non scompare, ma viene accumulato e trasformato, creando tensioni invisibili ma potenti.

Interpretazioni spettacolari
Le performance attoriali sono uno dei pilastri del film. Michele Riondino interpreta Sergio Rossetti, un uomo che ha perso suo figlio e porta con sé un dolore quotidiano, quasi fisico. Il suo verso agonizzante, intenso e straziante, è capace di trasmettere la disperazione di un uomo incapace di andare avanti in un mondo dove tutti gli altri sembrano felici. Giulio Feltri, nei panni di Matteo, è straordinario: un ragazzo fragile ma potente, che racchiude il peso dell’intera comunità sulle proprie spalle. Anche il resto del cast – Romana Maggiora Vergano, Paolo Pierobon, Roberto Citran – contribuisce a creare un senso di realtà inquietante, rendendo credibili dinamiche altrimenti surreali. Ogni gesto, sguardo o respiro diventa essenziale per la tensione emotiva.

Fotografia e regia: un’esperienza visiva totale
La regia di Strippoli e la fotografia di Cristiano Di Nicola rendono Remis un luogo che è insieme bello e inquietante. Gli spazi aperti delle montagne e dei villaggi alpini vengono catturati con una precisione ossessiva, creando contrasti tra luce naturale e ombra che accentuano il senso di inquietudine. Le inquadrature studiate e i movimenti di macchina contribuiscono a creare una tensione visiva costante, dove il paesaggio diventa parte della narrazione emotiva, quasi un personaggio aggiuntivo che accompagna le emozioni dei protagonisti.
Il suono come protagonista silenzioso
Forse più di qualsiasi altro elemento, il sound design rende il film memorabile. Anche senza vedere le immagini, l’uso del suono creerebbe una suspense totale: rumori improvvisi, silenzi pesanti e distorsioni audio contribuiscono a tenere lo spettatore costantemente in tensione. Il film dimostra che nell’horror non è solo ciò che si vede a terrorizzare, ma ciò che si sente. Il suono diventa un linguaggio autonomo, capace di trasmettere paura, ansia e dolore.

Il dolore come tema centrale
Il film esplora il dolore in modo crudo e realistico. Sergio è un uomo consumato dal lutto, mentre la comunità di Remis sembra incapace di tollerare qualsiasi minima manifestazione di sofferenza. Questo contrappunto mostra quanto sia illusoria la felicità apparente. La valle dei sorrisi lancia un messaggio chiaro e potente: non si può scappare dal dolore. Scappare significa diventarne schiavi. La vera guarigione richiede di attraversarlo, di sentirlo fino in fondo, e solo allora è possibile trovare una forma di liberazione. Il film, con questa tensione tra sopportazione e liberazione, insegna che il dolore non è nemico, ma rifiutarlo sopprimendolo, si.
Strippoli ci ricorda che la felicità apparente può nascondere abissi emotivi, che l’empatia senza equilibrio diventa un peso insostenibile e che non si può fuggire dal dolore e da se stessi. Con interpretazioni straordinarie, un suono che avvolge e una regia che non lascia respiro, questo film ci lascia con una verità universale impressa nella pelle: il dolore va trapassato, perché solo così possiamo davvero vivere.
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