L’étranger di Ozon e il Processo Crudele all’Indifferenza
- Giada Maria Scarfiello
- 4 giorni fa
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Un classico che rinasce al Lido
François Ozon porta a Venezia un adattamento radicale de Lo straniero di Albert Camus, e lo fa con la sua cifra più essenziale: asciuttezza, rigore, bianco e nero. È un film che respira la stessa aridità del suo protagonista, Meursault, e che non consola mai. La sua forza sta proprio nella fedeltà a quel senso di vuoto e di estraneità che ha reso immortale il romanzo, senza alcuna concessione allo spettacolo.
Quella giornata che spezza il tempo
La storia è ambientata ad Algeri, negli anni Trenta. Meursault, un modesto impiegato, partecipa al funerale della madre senza piangere. È questa assenza di lacrime a incrinare tutto. Da quel momento, il suo destino sembra segnato. Dopo aver intrecciato una relazione con Marie, ed essere trascinato nei loschi affari del vicino Raymond, si ritrova sulla spiaggia, sotto il sole cocente, con una pistola in mano. Il colpo che esplode che uccide un uomo, nemico di Raymond, non è solo la fine di un uomo, ma la condanna definitiva di Meursault stesso.
Ed è qui che il film di Ozon affonda il colpo: Meursault non verrà giudicato per l’omicidio in sé, ma per la sua incapacità di piangere la madre.

Un nichilismo che diventa condanna
Ozon mette in scena un processo che non è mai solo giudiziario: è il processo all’uomo che non sa provare emozioni “corrette”. L’assenza di lacrime diventa più scandalosa del sangue versato. Meursault paga non per ciò che ha fatto, ma per ciò che non ha sentito. Il suo nichilismo è totale: non c’è senso, non c’è redenzione, non c’è possibilità di appartenenza.
Eppure, proprio quando accenna a un lieve sorriso accanto a Marie — una promessa fragile di felicità possibile — compie il gesto che lo condanna. “Potevamo essere felici insieme”, gli rimprovera lei. E lui, invece, sceglie inconsciamente l’infelicità. Lo straniero non è solo colui che uccide: è colui che rifiuta la felicità, che resta ai margini del senso stesso dell’esistenza.

L’attore che incarna l’assenza
Benjamin Voisin regala una performance memorabile. Non interpreta Meursault: lo abita, lo trasforma in corpo e volto del vuoto. Ogni gesto è misurato, ogni parola pesa meno dei silenzi, eppure si resta incollati al suo sguardo impassibile. Ci innamoriamo di questo personaggio impossibile, vogliamo seguirlo anche quando ci respinge, perché la sua freddezza diventa paradossalmente magnetica. Accanto a lui, Rebecca Marder è luminosa, vitale, ma soprattutto fa da specchio: ci mostra ciò che Meursault non sarà mai.
Doppio finale: ciò che vuole lo spettatore e ciò che vuole il regista
Il film gioca con le aspettative dello spettatore. Per un istante, sembra offrirci il finale che vorremmo: Meursault che finalmente piange al momento della condanna, come se all’ultimo minuto riuscisse ad arrendersi all’emozione. Ma è un’illusione. Nel vero epilogo, durante l’incontro con il prete, tutto si spezza: Meursault rifiuta ogni consolazione, ogni fede, ogni senso. Rivendica il suo nichilismo fino all’ultimo respiro, scegliendo di restare estraneo al mondo.

La forza del bianco e nero
La fotografia in bianco e nero è uno dei punti più alti del film. Ozon la utilizza non come semplice scelta estetica, ma come traduzione visiva dell’assurdo. La luce abbagliante della spiaggia, i contrasti netti, i volti scolpiti dall’ombra: tutto diventa metafora di un mondo ridotto all’osso, spogliato di colore, dove non resta che il bianco accecante della verità e il nero insondabile del nulla.
L'étranger siamo noi
L’étranger non è solo il ritratto di un uomo che non piange al funerale della madre. È il ritratto di uno straniero che vive tra noi, e che forse siamo anche noi ogni volta che ci sentiamo fuori posto, incapaci di rispondere alle aspettative sociali. È un film che ci scuote, perché ci mette di fronte a un paradosso: non si può giudicare un uomo per le sue emozioni, eppure è esattamente ciò che facciamo, ogni giorno.
In questo, Ozon ci consegna un’opera grande e terribile: un film che non consola, ma che ci interroga. Un film che resta.
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