Piange il Cuore, ma è Necessario: The Voice of Hind Rajab
- Giada Maria Scarfiello
- 6 giorni fa
- Tempo di lettura: 5 min
Un film necessario, accolto come un evento
The Voice of Hind Rajab è ispirato a una storia vera che ha scosso il mondo. Presentato in concorso alla 82ª Mostra del Cinema di Venezia nel 2025, il film ha ottenuto una delle accoglienze più commoventi e imponenti dell’intera edizione: 23 minuti di standing ovation, con il pubblico in lacrime e la sala trasformata in un coro collettivo. Diretto dalla regista tunisina Kaouther Ben Hania, già candidata all’Oscar con L’uomo che vendette la sua pelle, il film rappresenta non solo un’opera di cinema politico ma anche un atto di memoria e di resistenza.
La trama è tanto semplice quanto devastante: il 29 gennaio 2024, a Gaza, la bambina di sei anni Hind Rajab resta intrappolata in un’auto colpita durante un attacco. Riesce a chiamare la Mezzaluna Rossa Palestinese, organizzazione sorella della Croce Rossa che fornisce soccorso medico e umanitario nei territori palestinesi. È con loro che Hind parla al telefono, implorando aiuto. Le sue parole – “venitemi a prendere, ho paura” – diventano una registrazione autentica che attraversa tutto il film. Intorno a questa voce reale, la regista costruisce una docufiction che alterna attori e immagini astratte, sempre però ancorata a ciò che è realmente accaduto.

L’inizio: un’immagine che disorienta
Il film si apre con un’immagine sfocata, indefinita, quasi disturbante. Per alcuni secondi non capiamo cosa stiamo guardando. È come se la visione ci respingesse, ci costringesse a entrare in uno spazio di incertezza. Poi, lentamente, quella grafica prende senso: scopriamo che si tratta della visualizzazione di una registrazione audio. Subito dopo compare la scritta: Gaza, 29 gennaio 2024.
È un dettaglio semplice, quasi asciutto, ma devastante. Da quel momento sappiamo dove ci troviamo. Non in senso geografico, non con lo sguardo sul territorio, ma in senso mentale e psicologico. È lì che ci porta il film, nello stesso spazio claustrofobico e angoscioso vissuto da Hind Rajab, la bambina palestinese di sei anni che con una telefonata disperata ha consegnato al mondo il suo ultimo grido di aiuto.
Registrazioni reali, voci intrecciate
Un aspetto fondamentale è dichiarato fin dall’inizio: le registrazioni che ascoltiamo sono tutte autentiche. Non c’è ricostruzione della voce della bambina: quella di Hind è sempre reale, sempre la sua voce. A volte, quando la scena passa al centralino della Mezzaluna Rossa — l’organizzazione umanitaria sorella della Croce Rossa che opera a Gaza — le parole degli attori si intrecciano alle registrazioni originali. Le voci si accavallano, si sovrappongono, creando un cortocircuito tra realtà e finzione che amplifica la tensione.
La Mezzaluna, nel film, non è solo un “luogo” narrativo ma un vero cuore pulsante di impotenza burocratica: si sente il loro tentativo disperato di coordinare i soccorsi, e al tempo stesso il peso del tempo che scorre inesorabile.
Una violenza invisibile ma insostenibile
Quello che colpisce di The Voice of Hind Rajab è proprio la scelta radicale di non mostrare. Non c’è sangue, non ci sono corpi straziati, non c’è la violenza spettacolare a cui il cinema ci ha abituati quando racconta la guerra. Non ci sono spari rumorosi né esplosioni. Eppure, raramente un film riesce a essere così violento nello stomaco, così devastante nell’animo.

La forza è tutta nella sottrazione. È nel suono, nella voce vera della bambina, che diventa cinema, memoria e atto politico. Il dolore non ha bisogno di immagini crude: basta la voce tremante di Hind, riprodotta e intrecciata in modo magistrale, a trasformare lo schermo in una ferita aperta.
Il tempo che scivola via
Durante la visione, ciò che emerge con maggiore durezza è la percezione del tempo. La burocrazia, con le sue procedure e lentezze, appare come un ostacolo letale. Si ha l’impressione che per salvare la bambina sarebbero bastati pochi minuti — otto — ma la realtà è che le ore sono scivolate via una dopo l’altra. Ed è proprio questa distanza tra l’urgenza vitale e l’attesa insopportabile a rendere il film ancora più straziante.

L’esperienza in sala: lacrime e silenzio
Chi era presente alla proiezione lo sa: The Voice of Hind Rajab non lascia scampo. Abbiamo sentito singhiozzi intorno a noi, lacrime trattenute e poi lasciate scorrere. È uno di quei rari momenti in cui il cinema non è intrattenimento, ma un’esperienza collettiva di dolore condiviso. Quando le luci si sono riaccese, nessuno ha parlato. Si usciva in silenzio, gli occhi lucidi, i passi lenti. È quel tipo di film che segna, che lascia un peso addosso, che rende difficile persino incrociare lo sguardo degli altri spettatori. E proprio in questo silenzio c’è forse la sua vittoria più grande: aver trasformato una sala in un luogo di coscienza.
Un film da vedere, non da superare
È un film duro, difficilissimo. Non lo si guarda con leggerezza, non lo si “supera” con facilità. Ma forse non va nemmeno superato. Perché superare significa spesso dimenticare, archiviare, andare oltre. E The Voice of Hind Rajab non deve essere dimenticato. È un film che bisogna portarsi dentro, che deve restare addosso. Per questo diciamo che è un film che bisogna vedere: nonostante il dolore, nonostante il peso, è un dovere morale prima ancora che cinematografico.
La regista e un segnale da Venezia
La mano dietro al film è quella di Kaouther Ben Hania, regista tunisina di straordinaria sensibilità e lucidità. La sua regia è spietata nel mettere lo spettatore davanti all’angoscia, ma allo stesso tempo profondamente umana nel rispetto della voce che racconta. In un’edizione della Mostra di Venezia che ha visto pochissime registe donne in concorso, spicca il fatto che uno dei film più forti, più discussi e più probabili vincitori del Leone d’Oro sia diretto da una donna. È un segnale potente, e speriamo non resti solo un’eccezione.

Fotografia, attori e intensità
Fotografia e interpretazioni contribuiscono a rendere il film un’esperienza totalizzante. La resa visiva è calibrata tra l’astrazione e la realtà, mentre gli attori (straordinari, intensi, mai sopra le righe) reggono con dignità il peso di una storia vera che rischiava di schiacciarli.
Colpisce soprattutto il finale: quando vediamo gli attori ripresi con un telefono, sullo schermo di quel telefono appaiono le immagini dei veri protagonisti della tragedia, ricostruite in posizioni identiche. Un’operazione tanto semplice quanto devastante, che rimette al centro le persone reali, impedendo allo spettatore di rifugiarsi nella finzione.
I favoriti al Leone d’Oro
Già nei giorni scorsi avevamo indicato come possibile favorito Father, Mother, Sister, Brother di Jim Jarmusch, un film potente e profondamente personale. Confermiamo che resta uno dei due titoli cardine di questa Mostra. Eppure, dopo aver visto The Voice of Hind Rajab, sentiamo che la nostra preferenza si sposta leggermente. Perché ci sono film che ammiri, film che apprezzi, e poi ci sono film che ti travolgono emotivamente, che ti fanno tremare il cuore e che restano con te.
The Voice of Hind Rajab appartiene a quest’ultima, rarissima categoria. È un film che non si dimentica, che non si supera, che resta. Ed è forse proprio questo il motivo per cui dovrebbe vincere il Leone d’Oro. Alla fine ci si accorge che le lacrime in sala non nascono solo dalla compassione, ma soprattutto da una sensazione di impotenza. Lo spettatore piange perché si trova nella stessa condizione di chi, alla Mezzaluna Rossa, rispondeva alle telefonate di Hind: ascoltare, voler aiutare, ma non poter fare abbastanza. È un dolore che diventa collettivo, che annulla la distanza tra chi guarda e chi ha vissuto, e che trasforma il cinema in una forma di responsabilità condivisa.