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Queer, La Metamorfosi del Desiderio: L’intima Odissea di Guadagnino

“Queer” il nuovo film di Luca Guadagnino non ha nulla a che fare con “Challengers” e “Call Me by Your Name”. Intendiamoci, ci sono similitudini, citazioni e tematiche ricorrenti ma in questo ultimo lungometraggio Luca Guadagnino ci offre un’introspezione intima forse anche di se stesso mai vista prima.


Queer, la metamorfosi del desiderio

"Queer" di Luca Guadagnino, presentato in concorso alla Biennale di Venezia, si rivela una proposta cinematografica audace e innovativa, divisa in due sezioni ben distinte ma intrinsecamente collegate.​ La prima parte del film è una narrazione più convenzionale, che intriga lo spettatore con la promessa di una storia d'amore che, contro le aspettative, non si sviluppa in modo romantico.​


La trama segue Lee e Eugene, detto Gene, i cui legami oscillano tra attrazione e distanza. Mentre Gene si avvicina e respinge Lee, i due intraprendono una relazione caratterizzata da un mix di sesso e assenza. Lee cerca un legame emotivo che Gene sembra costantemente eludere.​


La seconda parte del film si trasforma in un'esperienza onirica e profondamente esistenziale. Guadagnino esplora una dimensione più cosmica e metafisica del loro rapporto, culminando in un'esperienza ambigua e spaventosa che porta alla separazione dei protagonisti. Questo segmento del film assume toni surrealisti, evocando le atmosfere di Magritte e Salvador Dalí, e porta lo spettatore in un viaggio immersivo dentro l’identità spezzata dei personaggi.​


La struttura del film è articolata in capitoli, come indicato dai titoli di testa che mostrano elementi simbolici: occhiali, sigarette, zaini da escursione, machete, pistole. Ciascuno rappresenta un capitolo specifico della narrazione. Questa suddivisione riflette la ricchezza e la complessità della storia, preparando il pubblico a un'esperienza cinematografica unica.​


Guadagnino e Burroughs: tra adattamento e confessione

Guadagnino non si limita a trasporre il testo di William S. Burroughs: lo piega a una visione personale, quasi autobiografica. Lungi dall’essere una semplice trasposizione letteraria, Queer è una lettera d’amore disturbata, un sogno ossessivo su desideri irrealizzati e dipendenze emotive.​


Il personaggio di Lee — interpretato da Daniel Craig in una delle sue prove più viscerali — è lacerato da un bisogno d’amore che lo trascina nella paranoia. Eugene (Drew Starkey) è oggetto e spettro, figura ambigua e fuggente che sembra incarnare non un amante, ma un vuoto. Guadagnino amplifica questa tensione come se fosse una eco interiore: ogni scena è permeata da desiderio non corrisposto, da una pulsione carnale che mai si compie, sempre si frantuma.​


Un’estetica frammentata: l’immagine e il suono come trance

Il film, soprattutto nella sua seconda parte, rompe ogni linearità. Sayombhu Mukdeeprom — già direttore della fotografia per Suspiria — costruisce cornici allucinate e composizioni pittoriche in cui la figura umana si dissolve nel paesaggio. Le luci verdi e violacee, i neon, i riflessi sulle superfici umide della Città del Messico diventano personaggi.​


La colonna sonora di Trent Reznor e Atticus Ross accompagna questa caduta interiore con tensioni elettroniche, pulsazioni nervose e distorsioni ipnotiche. La musica invade lo spazio, guida l’emotività e avvolge ogni fotogramma di un senso di minaccia e malinconia.​


Dal desiderio alla disintegrazione: un film che divide

Rispetto a Challengers, questo film potrebbe risultare deludente per chi cerca una visione più commerciale, ma offre una prospettiva innovativa e profonda. Queer non è progettato per piacere: è costruito per scavare, per mostrare le crepe, per far perdere l’equilibrio allo spettatore. Il suo impatto è simile a quello di una confessione fatta nel buio, fra spettri interiori e corpi in dissolvenza.​


Conclusione: oltre il queer, oltre il cinema

Queer è, in ultima analisi, un film sul fallimento della comunicazione affettiva, sull’impossibilità del possesso e sulla solitudine strutturale dell’amore non corrisposto. Guadagnino firma un’opera che non è né consolatoria né accomodante, ma che ha il coraggio di esplorare i margini — emotivi, corporei, visivi.​ Un film che non parla solo di desiderio queer, ma di ciò che accade quando il desiderio non trova mai casa.​

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