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After the Hunt e l’Abisso che Separa Tre Generazioni Secondo Guadagnino

Un inizio che è già un enigma

Un ticchettio. Così si apre After the Hunt. Non è solo un suono, è un presagio: il tempo che scorre, il conto da pagare, l’ansia che cresce. Guadagnino lo mette lì, netto, prima ancora che compaiano i titoli di testa. E quei titoli, bianchi su nero, volutamente retrò, ci riportano a un’epoca di cinema che non c’è più. Non è nostalgia, è un avvertimento: ciò che stiamo per vedere è un racconto che riguarda tanto il passato quanto il presente, e che ci costringe a misurarci con le eredità che non vogliamo ammettere.


Tre generazioni a confronto

La forza di After the Hunt è tutta nella sua capacità di incarnare il conflitto intergenerazionale. Julia Roberts è la generazione che ha taciuto. La sua Alma - "anima" - non accetta davvero di aver subito violenza sessuale da giovane: lo racconta come una storia d’amore, lo legittima, lo ingabbia dentro un mito romantico. È la generazione che ha seppellito il dolore dentro di sé, al punto da trasformarlo in ulcere, letteralmente. Una donna che non ha mai fatto i conti con quello che è successo, perché “così funzionava allora”.


Di fronte a lei c’è la studentessa interpretata da Ayo Edebiri, che rappresenta la nostra generazione: quella che denuncia, che non accetta compromessi, che vuole smascherare ogni abuso. Ma proprio per questo spesso viene accusata di essere troppo sensibile, di non capire i meccanismi del passato. E infatti la vecchia guardia non la comprende, la guarda con sospetto, come se denunciare fosse un atto di fragilità o superficialità, invece che di coraggio.


After the hunt

E poi c’è Andrew Garfield, che incarna la generazione di mezzo. Maschile, apparentemente progressista, dichiaratamente femminista: ma dietro la facciata si cela la misoginia, la violenza, l’incapacità di trasformare le parole in sostanza. È l’ipocrisia di chi si vanta di aver cambiato pelle, ma sotto continua a essere lo stesso predatore.


Tre epoche, tre linguaggi, tre modi diversi di gestire il trauma e il potere. Guadagnino ci mette davanti a un dialogo impossibile, in cui nessuno sembra davvero ascoltare l’altro.


after the hunt

Il corpo come archivio della memoria

Il film non parla solo attraverso i dialoghi, ma soprattutto attraverso i corpi. Roberts recita anche con le mani e non solo con le parole: mani che tremano, che si chiudono a pugno, che accarezzano senza riuscire a proteggere, che offrono aiuto e che vengono respinte. È un linguaggio fisico, un lessico silenzioso che racconta più delle dichiarazioni pubbliche o dei proclami morali.


Il corpo diventa archivio di ciò che è stato taciuto: ulcere, rigidità, tic nervosi. Lì si accumula tutto quello che la generazione di Alma non ha mai detto. E da lì nasce lo scarto insanabile con chi, oggi, invece denuncia ad alta voce.


Struttura circolare, regia in stato di grazia

Guadagnino costruisce un’opera dalla struttura circolare: ciò che inizia con il ticchettio ritorna, ma trasformato, come se il tempo non fosse una linea ma un cerchio vizioso. Non è un errore, è una dichiarazione: siamo fuori equilibrio, e il cinema deve restituire quella vertigine.


E poi le citazioni, come il fantasma di Woody Allen nell'incipit del film che aleggia nelle discussioni accademiche infinite, nelle stanze colme di libri e nei dialoghi intellettuali che celano fragilità emotive. Solo che qui non c’è ironia, c’è rabbia.


Dopo la vittoria, il conto da pagare

La domanda che vibra in tutto il film è: cosa succede dopo aver vinto? Quando una generazione denuncia, quando la verità esplode, quando il colpevole viene smascherato… cosa resta? Guadagnino risponde con lucidità spietata: resta il vuoto, resta il dolore, resta un conto da pagare in piena solitudine.


Il finale, con la sua struttura che chiude, e riapre un nuovo cerchio, allo stesso tempo, ci lascia sospesi. Non c’è pacificazione, non c’è sollievo. Perché il trauma non si vince, si porta dentro.


Guadagnino è più disilluso che mai

After the Hunt è forse il film più arrabbiato di Guadagnino. Non compiacente, non rassicurante, non elegante nel senso più classico. È un film che morde, che lascia ferite aperte. Ed è proprio per questo che funziona: perché non offre soluzioni, ma domande.


Si esce dalla sala con il cuore pesante e la mente che lavora. Con la consapevolezza che il gap tra generazioni non si colma con una chiacchierata, ma con un confronto doloroso, forse infinito.


After the Hunt di Guadagnino

Cinema allo stato puro

Eppure, in mezzo a tutto questo dolore, c’è anche la bellezza. Guadagnino filma con una precisione formale straordinaria, gioca con la luce, con le inquadrature, con i silenzi. Ogni trovata registica – dal ticchettio iniziale alle soggettive in primissimo piano – è parte integrante del racconto, non mero esercizio di stile.



After the Hunt è cinema allo stato puro: classico e sperimentale insieme, feroce e struggente, fatto per restare addosso. Un’opera che non chiude, non consola, ma apre. E lascia dentro di noi un rumore che somiglia molto a quel ticchettio iniziale: il rumore del tempo che non smette di chiederci conto delle nostre scelte.

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