Dalle Ceneri, La Famiglia: La Trama Fenicia di Wes Anderson
- Giada Maria Scarfiello
- 5 giu
- Tempo di lettura: 4 min
Con La trama fenicia, Wes Anderson firma forse la sua opera più stratificata e ambiziosa degli ultimi anni. Un film che, pur restando fedele alla grammatica visiva che ha reso inconfondibile il suo stile – simmetrie impeccabili, palette cromatiche pastello, scenografie teatrali e personaggi eccentrici – affonda con sorprendente delicatezza nelle pieghe più profonde dell’esistenza umana. E lo fa con una lucidità affettuosa che disarma.
Un’idea narrativa tanto brillante quanto malinconica
Il titolo, La trama fenicia, non è solo una trovata estetica. È una metafora potentissima. Richiama il mito della fenice, creatura che rinasce dalle proprie ceneri, ma anche l’intreccio di rotte, commerci e inganni legati ai Fenici — una civiltà costruita sul viaggio, sul contatto, sulla rinascita. Nel film, i personaggi si muovono dentro una rete fatta di storie sospese, identità frantumate, legami da ricucire.
Al centro c’è Zsa-zsa Korda, un imprenditore sopravvissuto a sei incidenti aerei, simbolo vivente della caduta e del ritorno. Il suo obiettivo: riconnettersi con la figlia Liesl, diventata suora, ormai distante non solo geograficamente ma soprattutto emotivamente. È un racconto di ricostruzione interiore, pieno di ferite mai rimarginate, che trova il suo respiro in un’Europa anni ’70 reinventata come una fiaba post-moderna.

Un impianto comico che sorprende per equilibrio
Pur affrontando temi complessi, il film non rinuncia all’ironia, anzi: la comicità è uno dei motori principali dell’opera. L’umorismo qui è secco, geometrico, surreale. Ogni scena è costruita con la precisione di un orologio svizzero, e ogni battuta è calibrata come un verso di poesia assurda. Ma è una comicità malinconica, mai davvero leggera: dietro ogni risata c’è sempre qualcosa che punge, qualcosa che manca. Non si ride per dimenticare, ma per ricordare quanto tutto sia fragile.
Fotografia mozzafiato e regia pittorica
La fotografia di Bruno Delbonnel è, come da aspettative, incredibile. Ogni inquadratura è un dipinto in movimento, ogni scena costruita con una cura estetica maniacale. Ma non è solo virtuosismo: l’immagine racconta, suggerisce, amplifica le emozioni. L’uso del colore, delle ombre, della luce, delle geometrie non è mai solo decorativo, ma parte integrante del racconto. È un cinema che parla prima di tutto attraverso lo sguardo.

La trama fenicia: Un cast in stato di grazia
Il gruppo di attori coinvolti è un vero ensemble corale, dove ciascuno riesce a lasciare il segno. Benicio Del Toro, nei panni di Korda, alterna con maestria il grottesco al tragico, costruendo un personaggio memorabile. Mia Threapleton, intensa e misurata, regala alla figura della suora Liesl una profondità inaspettata. Accanto a loro, le presenze di Scarlett Johansson, Willem Dafoe, Tom Hanks, Benedict Cumberbatch (e altri volti noti del “Wes-verse”) contribuiscono a un’atmosfera affascinante, sospesa, a tratti ipnotica.
Critica lucida e tagliente alla Chiesa e alla fede
Uno degli aspetti più forti e meno scontati del film è la sua critica alla religione istituzionalizzata. La Chiesa, nel mondo di La trama fenicia, è mostrata come una struttura vuota, incapace di offrire vera consolazione. Il convento in cui vive Liesl non è un rifugio spirituale, ma una macchina burocratica fredda, dove il dogma soffoca l’umanità. La fede diventa rifugio più che cammino: una prigione travestita da salvezza. Anderson non è mai aggressivo, ma il suo sguardo è chiaramente disilluso, e lascia spazio alla riflessione.
Genitori fragili, figli smarriti
Il film parla della genitorialità come di un rapporto sempre in bilico tra amore e fallimento. I genitori non sono né eroi né carnefici: sono esseri umani goffi, spesso incapaci di dare ciò che i figli chiedono. Anderson, come spesso fa, racconta la famiglia come un campo di battaglia emotivo, in cui ogni personaggio combatte con il bisogno di essere visto, amato, capito. Non ci sono lieti fine facili, ma ci sono momenti di verità che commuovono profondamente.
Una riflessione sottile su vita e morte
Anche la morte è presente, quasi come un personaggio a sé. Non tanto nel senso fisico, quanto come simbolo di fine, di trasformazione. Ogni personaggio è chiamato a lasciar andare una parte di sé — un sogno, un ruolo, un'identità — per poter forse rinascere. Il film non dà risposte, ma pone domande essenziali: cosa resta, quando tutto crolla? È possibile ricominciare davvero? O ci limitiamo a indossare nuove maschere?

Una struttura narrativa volutamente opaca
Qui sta forse il maggior punto di divisione tra pubblico e critica: la struttura narrativa. Non è lineare, non è “facile”, e spesso pare più interessata a evocare che a spiegare. Ma questa opacità è coerente con il tono del film: La trama fenicia non vuole raccontare una storia “chiara”, ma accompagnare lo spettatore in un viaggio emotivo, fatto di frammenti, sogni, ricordi, intuizioni. Come nella vita, i momenti che contano non seguono sempre un filo logico.
Conclusione
La trama fenicia è un film che vive di contrasti: è buffo e triste, semplice e denso, colorato e profondamente cupo. Wes Anderson continua a esplorare il tema che da sempre lo ossessiona — la famiglia — ma questa volta lo fa con una sincerità e una malinconia nuova. È un film che non tutti ameranno, ma che resterà: come le ceneri di una fenice che ha già iniziato, in silenzio, a rinascere.
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