Familia al Visioni Periferiche Festival: Un Ritratto Duro e Necessario
- Giada Maria Scarfiello
- 13 lug
- Tempo di lettura: 4 min
Aggiornamento: 24 lug
È un cinema che pulsa sotto la pelle, Familia di Francesco Costabile, che torna dopo Una femmina con un’opera tesa, claustrofobica, profondamente umana. Proiettato nell’intenso contesto del Visioni Periferiche Festival, il film conferma il talento del regista nel dare forma visiva (e sonora) alla ferita intima e collettiva delle famiglie disfunzionali, senza mai indulgere nel compiacimento né offrire scorciatoie narrative.
Ispirato al libro autobiografico di Luigi Celeste, Familia racconta la storia di un figlio cresciuto nella violenza e nel terrore, e lo fa partendo non dal trauma in sé, ma dalla sua rielaborazione adulta. È un film che guarda indietro, che scava nel passato per capire cosa resta dopo che la violenza ha smesso di agire ma continua a vivere nella memoria, nel corpo, nei gesti quotidiani.
Un racconto domestico che brucia sotto silenzio
Quello di Familia è un racconto familiare, ma senza alcun calore domestico. È una casa come ce ne sono tante, fatta di stanze piccole e pareti sottili, dove il padre (uno straordinario Francesco Di Leva, premiato con il David di Donatello come Miglior Attore Non Protagonista) incarna una violenza strutturale, che non ha bisogno di urlare per imporsi: basta uno sguardo, un gesto, la pressione costante del controllo.
Non si tratta solo di un uomo violento, ma di un sistema che si perpetua nel silenzio, nella paura, nella rassegnazione. La madre (una intensa Barbara Ronchi) si muove in punta di piedi, come se tutto potesse frantumarsi da un momento all’altro. Il figlio, interpretato da Francesco Gheghi, osserva, assorbe, trattiene.
Il regista costruisce un clima dove ogni elemento — le luci basse, gli spazi stretti, i dialoghi misurati — concorre a creare un senso di angoscia che cresce con progressione chirurgica, senza mai esplodere in maniera spettacolare. È un’angoscia che si insinua lentamente e che, proprio per questo, risulta più autentica.

Una regia che scava sotto la superficie
Francesco Costabile conferma con Familia di essere un regista dalla mano ferma e dalla sensibilità profonda. La sua regia non ha bisogno di eccessi o retorica per colpire: lavora per sottrazione, per tensione trattenuta, per dettagli che parlano più di mille parole. In appena due ore ci fa vivere un incubo che per alcuni dura una vita intera, senza mai spingerci verso il melodramma.
Con uno sguardo chirurgico ma compassionevole, Costabile ci accompagna dentro una quotidianità deformata dalla paura, dove ogni gesto è carico di significato, ogni pausa è un grido trattenuto. La sua abilità sta nel farci rimanere lì, dentro quella casa, dentro quei silenzi, senza possibilità di fuga — e quando la luce finale arriva, non è liberazione: è consapevolezza. Un cinema che ha il coraggio di non consolare.
Familia è un film da ascoltare, prima ancora che da vedere
Ma ciò che rende Familia un’esperienza profondamente originale è il modo in cui Costabile lavora sul suono. Non solo sulla colonna sonora (discreta ma penetrante), ma soprattutto sull’ambiente sonoro: porte che si chiudono piano, rumori di passi ovattati, fiati trattenuti, rimbombi presenti e silenzi assordanti. Ogni elemento acustico diventa parte del racconto, come se il film ci dicesse: “Quello che senti, spesso, è più rivelatore di quello che vedi”.
Non a caso, la figura del padre è costruita più attraverso ciò che si percepisce che per ciò che viene mostrato. La sua presenza grava anche quando è fuori campo, anche quando tace. È in questo che Familia compie una scelta di regia coraggiosa: lasciare che il suono racconti ciò che l’immagine non ha bisogno di esplicitare.
Il risultato è un film che “suona” nella testa anche dopo la visione, e che riesce a evocare l’angoscia non con scene spettacolari, ma con dettagli precisi e disturbanti. Un’esperienza che tocca le fibre più profonde dello spettatore, perché non concede distanza, ti costringe a rimanere lì, nell’inquietudine.
Interpretazioni misurate, dolorosamente umane
La forza di Familia sta anche nella sua direzione degli attori. Francesco Di Leva è straordinario nel trattenere la violenza sotto una superficie calma e quotidiana. Un mostro credibile, riconoscibile, privo di cliché. Barbara Ronchi interpreta una donna che ha smesso di lottare ma non di amare, portando sul volto la stanchezza di chi ha resistito troppo. E Francesco Gheghi — premiato a Venezia — è una rivelazione nella sua capacità di esprimere il disagio senza parole, con lo sguardo e la postura di chi ha imparato a non farsi notare.
Un film che Visioni Periferiche ha saputo valorizzare
La scelta del Visioni Periferiche Festival di ospitare Familia è stata perfettamente in linea con lo spirito della rassegna: dare spazio a quei film che raccontano le marginalità, le ferite quotidiane, i rapporti che si sgretolano dietro porte chiuse. E Familia è esattamente questo: un ritratto della violenza familiare come struttura invisibile, che spesso si tramanda senza che nessuno la nomini.
Familia è un film che non urla, ma resta addosso. È un’esperienza sensoriale più che narrativa, che chiede di essere ascoltata, vissuta, respirata. Un film che parla della famiglia nella sua forma più oscura, ma anche della possibilità — tutta da conquistare — di spezzare la catena. Un cinema che fa male, ma che serve. E che merita tutta la nostra attenzione.
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