L’albero: L’angelo Caduto e il Fragile Immaginario della Giovinezza Secondo Sara Petraglia
- Giada Maria Scarfiello
- 4 lug
- Tempo di lettura: 4 min
Aggiornamento: 24 lug
Il film-rivelazione di Visioni Periferiche Svela le Crepe della Giovinezza Contemporanea.
A Bitonto, nel cuore della Puglia, il Visioni Periferiche Festival continua a dimostrarsi un presidio culturale vivo, radicale e necessario. La scelta di proiettare L’albero, opera prima di Sara Petraglia, è stata più che coerente con lo spirito del festival: portare nelle periferie il cinema che guarda ai margini, senza retorica, senza scorciatoie. Il dibattito seguito alla proiezione — moderato con sensibilità da ArteSettima, con la presenza della regista e della protagonista Tecla Insolia — ha offerto al pubblico uno spazio di confronto reale, attento alle sfumature di un film che non cerca di piacere, ma di restare.

L’albero è un film duro e sottile, un’opera che rifiuta l’ovvio e che invece lavora per sottrazione. Racconta due ragazze, Bianca e Angelica, in un presente sfilacciato, febbrile, immerso nella tossicodipendenza, ma senza alcun compiacimento visivo o narrativo. Ma attenzione: L’albero non parla solo di cocaina. La dipendenza che attraversa le due protagoniste è molteplice — fisica, sì, ma anche affettiva, relazionale. Bianca fuma compulsivamente, usa la droga, ma soprattutto usa Angelica. E quando dice: “Angelica è la mia cocaina”, quel momento svela il nucleo pulsante del film. Angelica è sostanza, rifugio, e allo stesso tempo condanna. È una forma di dipendenza emotiva totalizzante, che corrode e sostiene, che sazia e svuota.
La cocaina, qui, non è spettacolarizzata: è parte del paesaggio emotivo. È l’aria che si respira, come l’assenza totale di adulti. I genitori vengono evocati solo nei vuoti che lasciano: corpi invisibili, voci mancanti, fantasmi silenziosi. Il mondo adulto è fuori campo, o forse non esiste nemmeno.
Nel cuore del film ci sono i nomi, quei due nomi: Bianca e Angelica. Nomi che tradizionalmente evocano la purezza, la luce, l’innocenza. Ma qui diventano paradossali. Bianca non è più bianca: è opaca, confusa, quasi implosa nella sua fragilità. Angelica, invece, è una figura sfuggente, che pare non appartenere del tutto alla realtà. A un certo punto del film, Bianca dice: "Non mi interessa la realtà." Ed è lì che tutto cambia. L’impressione è che Angelica non sia reale, o almeno non lo sia del tutto. È come se vivesse nel pensiero di Bianca, come se fosse una proiezione del desiderio, della fuga, dell’irrealtà. Ma il film ci lascia anche tracce visive molto concrete che orientano questa ambiguità.

Il riferimento esplicito al quadro L’angelo caduto di Cabanel è emblematico: Angelica ha le ali bianche sulla schiena, un dettaglio che non può essere ignorato, e soprattutto ha quell’unico occhio celeste che emerge dietro il braccio, proprio come nell’opera ottocentesca in cui l’angelo, cacciato dal paradiso, siede sul suolo con un’espressione colma di malinconia e orgoglio ferito. È un’immagine potente, disturbante, che il film traduce nel corpo e nello sguardo di Angelica, figura eterea e ferita, spirituale ma priva ormai di qualsiasi grazia divina. Non è solo un riferimento estetico: è una chiave di lettura. Angelica è l’angelo caduto, il simbolo vivente di una purezza perduta e di una dannazione che si porta dentro, anche quando appare silenziosa, quasi immobile.
La regia di Petraglia è perfettamente coerente con questa visione. Nei momenti in cui le due ragazze sono insieme, la macchina da presa si avvicina, si fa intima, quasi claustrofobica, seguendo i respiri, gli sguardi, le tensioni invisibili che si muovono tra le due. Non c’è giudizio, non c’è morale, ma uno sguardo limpido che accompagna senza mediazione. È un cinema che osserva, che suggerisce senza spiegare, che si fida dello spettatore. E questo richiede coraggio, soprattutto in un’opera prima.
Le interpretazioni sono straordinarie. Tecla Insolia è devastante nella sua delicatezza: restituisce a Bianca una complessità emotiva che va oltre le parole, fatta di silenzi, tic, pause. E Carlotta Gamba, nei panni di Angelica, è perfettamente in bilico tra corporeità e visione: non sai mai se è lì davvero o se sta per svanire. Insieme creano una tensione palpabile, ambigua, intensamente femminile e, per questo, potentissima.

Il titolo stesso — L’albero — è un’immagine che cresce sotterraneamente. Non è mai protagonista, ma esiste fuori campo, come la realtà stessa, come la possibilità di una vita altra. È un simbolo di radicamento, certo, ma anche di distanza: lo si osserva solo da lontano, da una finestra chiusa. Non si tocca, non si scala, non si abita. Come se la salvezza fosse sempre lì, visibile ma inaccessibile.
L’albero è cinema necessario perché rifiuta la formula, perché non offre conforto, ma verità. È una storia di adolescenti che non cercano redenzione, ma solo uno spazio per esistere, anche se precario. Ed è proprio questo sguardo che ha reso la sua presenza a Visioni Periferiche così potente: perché parlare di periferie non significa solo parlare di geografia urbana, ma soprattutto di spazi interiori, emozionali, psichici.
In un panorama cinematografico che spesso predilige il rumore al silenzio, la morale al dubbio, l’esordio di Sara Petraglia è una promessa mantenuta. E il festival di Bitonto ha dimostrato ancora una volta che il cinema, quando scelto con cura, può davvero diventare una lente per vedere ciò che il mondo preferisce ignorare.
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