Quando la Paura fa Detonare la Democrazia: A House of Dynamite
- Giada Maria Scarfiello
- 25 ott
- Tempo di lettura: 3 min
Quando A House of Dynamite si apre con il decollo silenzioso di un missile diretto verso gli Stati Uniti, si capisce subito che Kathryn Bigelow non intende raccontare l’ennesimo film di guerra. Il suo interesse è la tensione: quei minuti sospesi, in cui tutto è ancora possibile ma ogni decisione potrebbe diventare fatale. La regista costruisce un incipit straordinariamente calibrato, un vortice di schermi, allarmi e volti tesi che cattura lo spettatore e lo costringe a respirare al ritmo del conto alla rovescia. In questa prima parte, la macchina narrativa è solida, precisa, tesa come una corda pronta a spezzarsi. È cinema puro, privo di compiacimenti. La paura è la protagonista assoluta, e la Bigelow la orchestra con intelligenza.

L’idea di fondo: la paura prima della guerra
Il film non parla di guerra, ma della paura della guerra — e questo lo rende, almeno in teoria, più interessante di un classico thriller politico. Il nemico non ha volto né nome; il missile che minaccia la nazione è anonimo, impossibile da identificare. Non c’è un “altro” contro cui reagire: c’è solo un sistema di potere che si guarda allo specchio e non riconosce più la propria immagine. In questo, A House of Dynamite tocca corde profonde. Bigelow mostra un’America che vive in uno stato di allerta permanente, un Paese che teme se stesso più dei suoi avversari. Ogni decisione è un’arma puntata, ogni esitazione una colpa. È una riflessione amara e potente, che in certi momenti trova il suo massimo vigore: nei silenzi delle sale comando, negli sguardi che sanno di fine imminente, nei dialoghi che oscillano tra lucidità e follia.
Il declino del ritmo: l’isteria che indebolisce
Eppure, dopo un inizio folgorante, la pellicola cambia passo — e non in meglio. L’idea di ripetere gli stessi eventi da punti di vista diversi, scelta ambiziosa sulla carta, finisce per appesantire la narrazione. Il ritmo rallenta, la tensione perde forza, e quello che era un film sulla paura si trasforma in un esercizio di stile ripetitivo. Bigelow, da sempre maestra nel gestire la pressione e il caos, qui sembra perdere l’equilibrio. La regia diventa convulsa, la macchina da presa si muove nervosa, quasi isterica, mentre la sceneggiatura si ripiega su se stessa. È un film che vorrebbe raccontare la vertigine del potere ma rischia di diventare prigioniero della propria ansia. E così, invece di travolgere, finisce per stancare.

L’autocelebrazione e la contraddizione americana
Il punto più problematico del film, però, è ideologico. A House of Dynamite vorrebbe essere una denuncia del sistema americano ossessionato dalla difesa e dalla paranoia del nemico, ma finisce per autocelebrarlo. Dietro la facciata critica, rimane intatto il mito della grandezza americana: quella potenza che si definisce vittima, ma continua a comportarsi da carnefice. Il film sembra voler dire: “Guardate quanto siamo vulnerabili”, ma nel farlo ribadisce l’idea che gli Stati Uniti restino comunque il centro del mondo, i soli a poter decidere quando e come difendersi. È una contraddizione profonda: la paura è il motore, ma anche l’alibi. Bigelow sfiora il tema della responsabilità politica, ma non affonda davvero il colpo. L’America che mostra è isterica, impaurita, ma sempre al centro della scena, sempre giustificata.
La regia e l’estetica: potenza senza rivelazione
Dal punto di vista tecnico, la mano della regista resta indiscutibile. Il film è impeccabile nella costruzione visiva: la fotografia metallica, i corridoi angusti, il montaggio che alterna calma e panico con precisione chirurgica. È un prodotto raffinato, esteticamente controllato, ma proprio per questo freddo, incapace di travolgere emotivamente. Bigelow gioca con il minimalismo e con l’eccesso, ma senza trovare un vero punto d’incontro. C’è tensione, ma non catarsi. Si resta ammirati dalla forma, ma distanti dal cuore. E in un’opera che ambisce a parlare dell’abisso umano, questa distanza pesa.

Un film importante, ma non riuscito a pieno
In definitiva, A House of Dynamite è un film importante, ma non riuscito. Importante perché tenta — con coraggio — di interrogare il nostro tempo, le sue ansie, la fragilità dei sistemi che pretendono - e forse fingono - di proteggerci. Ma non riuscito perché resta intrappolato nella stessa paura che vorrebbe analizzare. È un film da vedere con occhi critici, non per godere di una storia, ma per leggere tra le pieghe di un linguaggio cinematografico che si crede ancora messia della libertà, quando in realtà ne è il prigioniero.
Se lo si guarda per quello che è — un grande specchio deformante dell’America e delle sue ossessioni — allora A House of Dynamite diventa un’esperienza interessante, perfino necessaria. Ma se lo si giudica come film sulla guerra o sulla politica, resta incompiuto: elegante, teso, ma privo di quella verità che sola può rendere un’opera davvero memorabile. Una riflessione che vogliamo condividere con voi è questa: è davvero così sicuro vivere in Una Casa della Dinamite?
Ecco dove puoi vedere A House of Dynamite:
Netflix (abbonamento)
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