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Contro l’Algoritmo: Come MUBI Sta Salvando il Cinema d’Autore

Aggiornamento: 24 lug

In un’epoca in cui l’algoritmo decide cosa vediamo, quando lo vediamo e come lo vediamo, MUBI rappresenta un atto di resistenza. Una piattaforma, sì, ma prima di tutto un manifesto. Un'idea di cinema che sfida la velocità, l’omologazione e la logica della quantità. In un mondo saturo di contenuti, MUBI propone una selezione. In un ecosistema governato dallo streaming compulsivo, offre cura editoriale. E nel cuore di questa filosofia c'è una visione radicale della distribuzione.


Negli ultimi anni, MUBI è emersa come uno degli attori più influenti nel panorama del cinema d'autore e sperimentale. Non è solo una piattaforma di visione: è diventata un vero e proprio hub culturale, un ponte tra le sale indipendenti, i festival e un pubblico globale affamato di storie diverse.


MUBI: Un’Altra Idea di Distribuzione

Mentre i grandi colossi dello streaming puntano su blockbuster e serialità infinita, MUBI scommette sulla rarefazione. Ogni film caricato sulla piattaforma è frutto di una scelta precisa, non di un algoritmo. E dietro ogni scelta c'è una visione curatoriale che mette al centro il valore artistico, la voce del regista, il contesto politico e culturale in cui un’opera nasce.


Ma la vera rivoluzione è nella sua capacità di trasformare la distribuzione in un atto culturale. MUBI non si limita a "ospitare" film: li accompagna. Li promuove con interviste, saggi critici, retrospettive, dossier. E sempre più spesso li produce e li distribuisce anche in sala, costruendo una sinergia tra online e offline che restituisce al cinema il suo spazio fisico e il suo valore rituale.


Il Caso “Titane” e Oltre

Basti pensare al caso di “Titane” di Julia Ducournau, Palma d’Oro a Cannes 2021, distribuito da MUBI in diversi territori. Un film estremo, disturbante, difficilmente “vendibile” nei circuiti tradizionali. Eppure, grazie alla rete internazionale e alla comunità che MUBI ha saputo costruire, il film ha trovato il suo pubblico. Lo stesso è accaduto con “The Worst Person in the World” o “Aftersun”, piccoli gioielli diventati fenomeni globali, senza rinunciare alla loro identità.


Una Comunità Globale di Cinefili

MUBI parla a una comunità, non a un mercato. E questo fa tutta la differenza. Lo spettatore di MUBI non è un consumatore distratto: è un appassionato, un esploratore, spesso un cinefilo radicale. In un certo senso, MUBI ha saputo ridare dignità all’atto del guardare, restituendo profondità e lentezza a un’esperienza oggi sempre più frenetica.


Ma non è solo una questione di gusto. È anche politica. Perché promuovere un cinema indipendente, queer, sperimentale, femminista, proveniente da geografie trascurate — dalla Turchia all’America Latina, dall’Africa al Sud-Est asiatico — significa ridefinire le gerarchie del visibile. Significa allargare lo sguardo.


Oltre la Nicchia

C’è chi accusa MUBI di essere elitario, rivolto a una nicchia. Forse è vero. Ma ogni rivoluzione parte da una minoranza consapevole. E in un contesto in cui il mainstream è sempre più piatto, anestetizzato e industriale, la nicchia è spesso l’unico luogo dove può nascere qualcosa di autentico, di pericoloso, di vivo.


In questo senso, MUBI non è soltanto una piattaforma di distribuzione: è una presa di posizione estetica e politica. È la dimostrazione che un altro cinema è possibile. E che, forse, un altro pubblico è già qui. Basta solo smettere di cercarlo nei numeri, e cominciare a riconoscerlo negli sguardi.

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